«Non trova indecente che, con tanti torinesi senza un piatto di minestra, la città tiri fuori dei soldi per un altro stadio?». Mara, pensionata.
Di pancia il suo sfogo non fa una grinza. Però la invito a usare la
testa e magari anche il cuore. Lo stadio a cui allude si chiama
Filadelfia e vi giocò, senza mai perdere, il Grande Torino. Da quando fu
abbattuto, quindici anni fa, rappresenta uno dei tanti buchi neri del
paesaggio italiano. In qualunque nazione rispettosa del proprio passato e
artefice del proprio futuro, il Filadelfia sarebbe un punto di ritrovo
per la comunità e un monumento capace di attrarre turisti della memoria.
Potrei commuoverla con ricordi personali - la mano di papà che avvolge
la mia mentre mi conduce all’interno del «tempio» e, trent’anni dopo,
l’autista del carro funebre che fa percorrere a mio padre l’ultimo giro
intorno al rudere in cui aveva trascorso le domeniche migliori della sua
gioventù. Potrei insistere sulla scorrettezza dell’informazione che le è
stata data: una parte dei fondi che il Comune investirà nella
ricostruzione non sono della città, ma del Filadelfia e furono versati
da un supermercato per poter edificare in zona. Invece preferisco
azzardare un discorso che trascende il tifo e il Filadelfia. I soldi
sono pochi, giusto usarli per le minestre. Ma se non vogliamo ridurci a
un immenso centro di assistenza sociale, bisognerà pensare anche a
creare lavoro. E in un mondo globale la sola chance di sopravvivenza che
ci resta è investire nel nostro petrolio: natura, storia, memoria,
cultura. Lei non ha idea di quanti piatti di minestra potrebbero
riempire i mille Filadelfia d’Italia.